Nota all’ Io che scrive 2016
Un gioco di specchi
La rassegna poetica L’io che
scrive mi è sembrata quest’anno proporsi nel suo insieme come un gioco di
specchi, che rivelavano, martedì dopo martedì, successivi piccoli mondi
esclusivi di apertura al possibile umano. Ognuno dei presenti in sala poteva
fare suo quello che lo stava riflettendo almeno un po’, poteva impacchettare
una confessione, una citazione, un’ammissione, o portarlo fuori intero, quel
mondo parziale e problematico, fasciato ancora di commenti e di applausi,
metterlo in auto, posarlo a casa, sognarne un angolo sbrecciato o ricordarlo
come meglio credeva, comprensivo dei silenzi del pubblico,
delle domande e delle risposte che spostavano sempre il centro più in là. Dal materno come tema antologico e artistico
declinato nella raccolta “Madri” della prima serata, ricca di nostalgia e
d’immedesimazione nel destino della propria madre, al mondo-confronto tra
poesia e scienza di Marco Ruini, quasi un incaricato di pace tra la prima e la
seconda stella di conoscenza, così a lungo divise, alla poesia
emotivo-rammemorante di Elio Caterina con i suoi quadri astratti degni di
un’astronave in partenza per Giove, alle poesie colloquiali e frangivento in
dialetto veronese di Bepi Sartori, Giorgio Sembenini e in dialetto modenese di
Sauro Roveda, che hanno rotto l’equilibrio lessicale ufficiale delle sere
precedenti per parlare a stretto giro di metafora con i suoni caldi della loro
lingua madre. Ogni incontro un timbro, un sussurro, un monito, un testimone da
far “cantare” con la voce del proprio tempo. Ma gli specchi si sono
involontariamente cercati anche nelle assenze da sé, si sono dati appuntamento
durante i giorni che li separavano in altro misterioso luogo, il poetico si è
rifranto in mille luci di rimando, in tocchi sensibili che mai potremmo
elencare, spiegare, ritrovare nella vita comune. Come nella mitica scena del
film di Orson Welles con la bionda Rita Hayworth replicata in tante se stesse
specchiate in una vertigine d’immagini in bianco e nero, qualcuno da non so
quale poltroncina da studente ha infine sparato alle frasi e i vetri della
poesia da calendario sono andati in frantumi, mostrando la sostanza di un
bisogno poetico che travalica le singole vite di ciascuno di noi. Il profondo è
prevalso sul vuoto e io ho tirato un sospiro di sollievo quando sono apparse
figure dai colori iridati o di perla, metamorfosi gentili o profetiche, incursioni
nel futuro o ritorni al passato. Ne ho ancora in mano i frantumi più cari.
Antonella Jacoli
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