venerdì 18 novembre 2016

Nota di Antonella Iacoli all'Io che scrive 2016



Nota all’ Io che scrive 2016
Un gioco di specchi
La rassegna poetica L’io che scrive mi è sembrata quest’anno proporsi nel suo insieme come un gioco di specchi, che rivelavano, martedì dopo martedì, successivi piccoli mondi esclusivi di apertura al possibile umano. Ognuno dei presenti in sala poteva fare suo quello che lo stava riflettendo almeno un po’, poteva impacchettare una confessione, una citazione, un’ammissione, o portarlo fuori intero, quel mondo parziale e problematico, fasciato ancora di commenti e di applausi, metterlo in auto, posarlo a casa, sognarne un angolo sbrecciato o ricordarlo come meglio credeva, comprensivo dei silenzi del pubblico, delle domande e delle risposte che spostavano sempre il centro più in là.  Dal materno come tema antologico e artistico declinato nella raccolta “Madri” della prima serata, ricca di nostalgia e d’immedesimazione nel destino della propria madre, al mondo-confronto tra poesia e scienza di Marco Ruini, quasi un incaricato di pace tra la prima e la seconda stella di conoscenza, così a lungo divise, alla poesia emotivo-rammemorante di Elio Caterina con i suoi quadri astratti degni di un’astronave in partenza per Giove, alle poesie colloquiali e frangivento in dialetto veronese di Bepi Sartori, Giorgio Sembenini e in dialetto modenese di Sauro Roveda, che hanno rotto l’equilibrio lessicale ufficiale delle sere precedenti per parlare a stretto giro di metafora con i suoni caldi della loro lingua madre. Ogni incontro un timbro, un sussurro, un monito, un testimone da far “cantare” con la voce del proprio tempo. Ma gli specchi si sono involontariamente cercati anche nelle assenze da sé, si sono dati appuntamento durante i giorni che li separavano in altro misterioso luogo, il poetico si è rifranto in mille luci di rimando, in tocchi sensibili che mai potremmo elencare, spiegare, ritrovare nella vita comune. Come nella mitica scena del film di Orson Welles con la bionda Rita Hayworth replicata in tante se stesse specchiate in una vertigine d’immagini in bianco e nero, qualcuno da non so quale poltroncina da studente ha infine sparato alle frasi e i vetri della poesia da calendario sono andati in frantumi, mostrando la sostanza di un bisogno poetico che travalica le singole vite di ciascuno di noi. Il profondo è prevalso sul vuoto e io ho tirato un sospiro di sollievo quando sono apparse figure dai colori iridati o di perla, metamorfosi gentili o profetiche, incursioni nel futuro o ritorni al passato. Ne ho ancora in mano i frantumi più cari.
Antonella Jacoli

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